Articoli su Giovanni Papini

1935


Francesco Bruno

Parabola di Papini

Pubblicato in: Corriere Emiliano (Gazzetta di Parma), anno XIII, p. 3

Data: 29 gennaio 1935




   Nel suo ultimo libro, La Pietra Infernale (Morcelliana, Brescia), Giovanni Papini raccoglie dieci saggi di religione e letteratura, alcuni dei quali già molto discussi al loro primo apparire in riviste e giornali, e che oggi, messi con altri, costituiscono una specie di itinerario spirituale dell'autore. Il primo di questi scritti è del 1908, del tempo, vogliamo dire, in cui Papini non si era ancora convertito al Cattolicesimo, ma che pure guardava con attenzione il Cristianesimo. In fondo, per chi ben osservi, Papini è stato sempre un credente, anche nei periodi più burrascosi della sua polemica negatrice e dissolvítrice; il messaggio cristiano lo ha turbato, in ogni istante della sua vita, e lo turba ancora oggi che è venuto ad ancorarsi nel porto quieto della fede assoluta in Dio e nella Chiesa Romana. Ancora oggi egli non e contento di sè; e si rammarica e rattrista della sua persona e del mondo che lo circonda. Ma in questo suo accoramento è tutta la vitalità d'una fede smisurata, anche se apparentemente possa sembrare fittizia e fragile. Papini crede in virtù proprio della sua inquietudine e scontentezza. Senza la condizione polemica, in lui don si determinerebbe la condizione religiosa; l'una prepara e anticipa l'altra.
   Nè si può negare che tutta l'opera di Papini non sia improntata ad un alto concetto morale della vita. In ogni azione, in ogni fatto storico ed evento spirituale, lo scrittore fiorentino scorge un senso etico, che è poi senso religioso del mondo. Risale al 1908 appunto la pubblicazione del saggio La Religione sta da sè, al quale segue una breve chiarificazione dell'autore con gli ispiratori del movimento modernista. A costoro, che proclamano la necessità di riformare la Chiesa nei suoi istituti secolari e nei suoi rigidi culti, Papini obietta che non basta un'azione amministrativa, politica e scientifica, a rendere attuale il Cristianesimo. Ciò che invece non bisogna trascurare è la morale. Il messaggio cristiano ha un valore essenzialmente etico.
   In quello scritto, Papini bada a rivendicare alla Religione un'autonomia piena e incontrastata; e lotta specialmente l'idealismo, che fa del pensiero l'attività spirituale per eccellenza. Da Hegel a Croce e a Gentile, la Religione è respinta perchè ritenuta una funzione empirica; la filosofia, essendo il supremo momento dello spirito creatore, la sovrasterebbe e trascenderebbe. Papini mostra la vanità degli sforzi idealistici, intesi a riportare la verità nell'orbita dell'io e della coscienza individuale. Da Fichte in poi, l'errore fondamentale dell'idealismo sta nel fatto che esso si arroga, come ogni altra filosofia immanentistica del resto, il diritto di possedere la verità; pure è risaputo che mai nessun sistema metafisico ha potuto definitivamente appropriarsi del vero.
   Papini crede dunque in una verità che è fuori di noi, in un Dio trascendente, anche prima di scrivere la Storia di Cristo, nel 1919. Non può dirsi, perciò clamorosa la sua conversione nell'immediato dopo guerra. Le conversioni rumorose furono quelle dei romantici del primo trentennio dell'Ottocento; basterebbe, per tutti, l'episodio di Zaccaria Werner che, di punto in bianco, prese il saio e varcò le soglie d'un monastero. Egli scriveva, al colmo del suo furore ascetico: «Io ho abbandonato l'idea di essere uno e qualche cosa; io voglio diventare niente per essere tutto».
   I convertiti del primo trentennio del Novecento hanno tutti una propria storia spirituale assai complicata, e che ha profonde stratificazioni nell'ante guerra; cosa dicasi per Papini e così per altri scrittori, dei più rappresentativi in Europa, come Jacques Rivière, G. K. Chesterton e Peter Wust. Ma la guerra dette il colpo di grazia, senza dubbio. Dice papini (pp. 151-52) che durante la guerra rimase assai rattristato dallo spettacolo di tante rovine e di tanti dolori. «Rilassi in quegli anni molti libri di Tolstoi e di Dostoievski e da essi venni risospinto alla lettura del Vangelo, che avevo letto più volte ma spesso con spirito diffidente e ostile. E' meditando sul Vangelo, e specie sul Sermone del Monte, venni a pensare che l'unica salvezza per gli uomini, e una salvaguardia sicura contro il ritorno degli orrori presenti, non poteva essere che un mutamento radicale dell'anima: il passaggio, cioè, dalla ferinità alla santità, dall'odio per il nemico (e perfin per l'amico) all'amore anche per il nemico».
   Così, a 38 anni, Papini sentì il bisogno preciso di appartenere alla società fondata da Cristo; da credente divenne cattolico.

***

   Non meraviglierà ora l'atteggiamento assunto da Papini come scrittore. Egli dice che l'arte ha una funzione eminentemente politica e morale. Il poeta, per lui, è un maestro di vita; così come sono stati i nostri maggiori scrittori da Dante a Machiavelli, da Carducci e D'Annunzio a Oriani. Nel saggio Lo scrittore come maestro, Papini ribadisce, ad una ad una, le sue idee. In sostanza, egli è contro la letteratura fatta esclusivamente per letterati, e contro la narrazione sciatta e corrente, ad uso dei grossolani lettori. In una parola, egli si oppone all'estetica idealistica, che concepisce l'arte come intuizione pura, come momento aurorale dello spirito.
   La grande arte, da Omero in poi, ha sempre influenzato i popoli, ha sempre sparso i suoi germi benefici. Essa ha attinto dalla vita ed ha parlato agli uomini un linguaggio schietto e genuino. Senza proporsi scopi educativi, l'arte esercita una missione etica. Con ciò, non si dice naturalmente che l'arte non sia autonoma e che non abbia una sua esistenza ben definita. L'artista non deve scrivere temi obbligati, non deve proporsi argomenti astratti, e comunque lontani dalla sua sensibilità e dal suo gusto; tuttavia è anche associato che un vero artista crea sempre un mondo suo proprio, qualunque cosa si dia a rappresentare. Più si è artisti e più si è maestri di vita; più l'arte attinge culmini altissimi e più diviene ispiratrice di sensi civili e umani.
   Insomma, si può ragionevolmente concludere, afferma Papini (p. 156) «che nelle grandi epoche i grandi scrittori sono, in maggioranza, educatori e maestri e che soltanto nelle epoche spiritualmente stracche fiorisce la letteratura come spasso egocentrico, come spengipensieri ed aguzzaingegni, la letteratura impropriamente detta «pura», ch'e letteratura per i letterati e non per gli uomini».
   E' chiaro dunque come, per Papini, la vita tutta abbia un significato morale. L'arte, la religione, la filosofia, non sono e non debbono essere scienze astratte, ma piuttosto pratica di vita, fede, esperienza viva e tormentosa d'ogni ora e d'ogni minuto. Manzoni stesso diceva che bisogna trovare, nei fondo d'ogni azione umana, un presupposto morale.
   L'uomo non può essere considerato mai, sia esso artista, asceta o pensatore, indipendente, avulso dalla realtà storica in mezzo a cui si agita e freme. La filosofia non è un sacco di teorie viventi a se; quando essa diviene pura metafisica, si preclude la comprensione della vita, e magari presume di ipostatizzare Dio e la verità. Ma anche Pascal avvertiva che il Dio dei cristiani non è quello dei filosofi.
   Oggi, il più intransigente teorico della pura poesia, Paul Valéry, si fa a sua volta, quando scrive in prosa, un moralista di prim'ordine. Papini ha il merito e il vantaggio almeno di essere un uomo coerente, ieri come oggi; così da cattolico e così da scrittore. Moralista come uomo di fede e moralista come uomo di lettere.


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